l'ascesa e il declino di Josef Myslivecek (e l'incontro con Mozart a Bologna)

Il dimenticato

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proiezione del biopic Il Boemo di Petr Václav (CZE/ITA/SVK, 2022, 140’, V.O. con sott. it.)
nell’ambito di SOS Sons of Sounds - Cinema Galliera

Il regista ceco Petr Václav cita apertamente Amadeus quando, affidando il ruolo al reale enfant prodige pianistico classe 2009 Philip Hahn, mette in scena Wolfgang Amadé Mozart ancora bambino al momento del suo primo incontro a Bologna nel 1770 con l’allora trentatreenne Josef Myslivecek, proprio in concomitanza con il celebre e “misterioso” compito affrontato dal giovane Wolfgang per l’ingresso nell’Accademia Filarmonica (tra l'altro, prova affrontata - e molto più brillantemente superata - da Myslivecek un anno dopo).
Al piccolo genio di Salisburgo, accompagnato in viaggio dal padre Leonard, basta anche questa volta un ascolto nemmeno completo di una composizione del collega per sedersi al clavicembalo e iniziare a riprodurla, senza lo spartito né la minima difficoltà, fino a improvvisare le personali variazioni che l’avrebbero resa una composizione nettamente migliore dell’originale.
Eppure qui non è il Mozart giovane e competitivo che finiva per sottolineare la banalità e (in)consapevolmente parodiare la marcetta di benvenuto per lui composta da Antonio Salieri. Non c’è alcuna sfida fra i due, non c’è alcuna umiliazione, non c’è alcun rancore, ma al contrario c’è l’inizio di un’amicizia basata sulla stima reciproca, sulla collaborazione, sul talento che genera altro talento.
«Egli trasuda fuoco, spirito e vitalità» scriveva di Myslivecek il piccolo Wolfgang, che proprio sullo stile italiano e sui quintetti d’archi del compositore ceco si sarebbe definitivamente formato e avrebbe costruito parte delle sue fortune.
Il Boemo è un biopic musicale imperdibile e fondamentale per riscoprire splendori e miserie di Josef Myslivecek, organista e violoncellista di fine Settecento, che abbandonò i mulini di famiglia a Praga per sbalordire Venezia e l’Italia con le sue composizioni.
Arie dell’epoca (registrate in presa diretta), amori, viaggi, azzardi, miserie e rovesci tragici si rincorrono nel film di Petr Vaclav, che prima di battere il ciak, ha ficcato il naso in tutte le biblioteche e gli archivi d’Europa (tra cui ovviamente la biblioteca del Museo della musica!) a caccia delle poche testimonianze (spesso deformate o leggendarie) su un musicista tanto celebre allora quanto misconosciuto oggi.
Ma sull’impalcatura da documentario sboccia un solido romanzo sentimentale dove la trama picaresca dialoga con un dramma polifonico, ora lirico (notevoli gli squarci da cinema muto), ora decadente, cadenzato dalla composta furia dei dialoghi, in un girotondo di camere a mano, luce naturale e ambienti dal vero, dove si scava con delicatezza e coraggio un sentiero autoriale alternativo, ma non dimentico dei pilastri del biopic musicale: tra sprazzi dell’erotismo di Casanova e con il plus della fotografia di Diego Romero, estetizzante ricomposizione di spirito aristocratico, ethos e valori del secolo senza forzature decorative (via Barry Lindon, di cui anche mutua la parabola dall’altare alla polvere), è un sostanziale controcampo dell’Amadeus di Miloš Forman, non più sull’invidia dell’allievo di Pescetti Antonio Salieri ma sulla fame dell’altro allievo di Pescetti Josef Myslivecek, sulla sua volontà di emergere, sulla sua libertà creativa e personale.
Seguiremo quindi l’ascesa, il trionfo, la caduta e infine l’oblio del “Boemo divino” (com’è appellato dall'adorante pubblico italiano, per evitare di pronunciarne l’impossibile cognome) che tra un tormento compositivo e un trionfo, vaga per le corti d’Italia a caccia di soldi patroni e donne. Un Casanova felliniano che lega la sua musica a più amori contrastati: giunto ragazzo a Venezia, concupisce un’aristocratica di spirito libertino, gettando nella disperazione una candida nobile, di cui rifiuta la proposta di matrimonio.
La gratificazione lagunare per le opere serie, diventa poi il trampolino per Napoli: il teatro San Carlo e il re ne consacrano la gloria, sublimata dal sodalizio con il soprano più famoso del tempo, Caterina Gabrielli (una nevrastenica ed eccentrica Barbara Ronchi) tra lo spartito e il letto.
Da lì, altre peregrinazioni, altri successi e altri amori: ma a frenarlo sarà lo stigma paralizzante della malattia, che lo sfigura senza rimedio, malgrado lui giurasse di essere rimasto sfigurato al naso per un ribaltamento del calesse e una serie di pessimi interventi medici. Ma ormai il suo nome era stato infangato e l’icona rapidamente si sgretola per venire relegata all’anonimato nell’avanzare della sifilide, fino all’ipocrita eliminazione prima dai cartelloni dei teatri e poi quasi dai libri di storia della musica.
Del resto «Mi dispiace molto per lui. Ma è lui l’autore della propria sventura e della sua vita miserabile e spregevole. Quindi ora deve vergognarsi di fronte al mondo intero», rispondeva nel 1777 Leopold Mozart alla tristezza del figlio una volta scoperta la malattia di quella stessa persona della quale solo sette anni prima aveva scritto alla moglie «è un onest’uomo, e siamo diventati intimi amici».
Il tutto per un film rigoroso nella ricerca ma denso e affascinante nella ricostruzione, che ondeggia tra amori e assenze, tra aspirazioni e contrasti, tra violenza ed estasi, tra sesso ed arte: un atto di giustizia per ridare cittadinanza ad un genio crepuscolare, errabondo e visionario, sregolato, malizioso e infelice, innalzato e tradito dalla sua stessa brama d’amore e gloria, simbolo di un’epoca al tramonto, pronta ad essere capovolta, per sempre, proprio da Mozart.
 

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