Museo Civico Medievale
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Museo Civico d'Arte Industriale e Galleria Davia Bargellini
Strada Maggiore, 44
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Collezioni Comunali d'Arte
Piazza Maggiore, 6
40121 Bologna
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Museo del Tessuto e della Tappezzeria "Vittorio Zironi"
Via di Casaglia, 3
40135 Bologna
tel. 051 2194528 - 2193916
fax 051 232312
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La moda etnica estone dal passato al futuro a cura di Anu Hint al Museo del Tessuto e della Tappezzeria "Vittorio Zironi" di Villa Spada.
Per la prima volta in Italia gli stilisti estoni espongono le loro nuove creazioni che traggono spunto dai vestiti tradizionali. L'esposizione, che comprende abiti, tessuti e foto, illustra e valorizza il linguaggio immaginario dell’arte etnica tra forme, colori e motivi decorativi, dimostrando così che quello stile, formatosi nel corso dei secoli, è ancora vivo. Gli stilisti estoni che operano nell’ambito della creazione etnica propongono nuove idee e nel contempo esaltano la ricchezza e l'attualità del loro costume tradizionale.
L’Estonia è un paese nordico assai poco popolato, circa un milione di persone. L’attuale esposizione introduce la ricchezza e la varietà dei vestiti tradizionali: in Estonia se ne possono contare circa 90. L’estetica e l’abilità artistica del popolo si riflette nelle combinazioni dei colori dei vestiti tradizionali, negli ornamenti e nella gioielleria, mentre le componenti etniche che ritroviamo nei vestiti raccontano il passato e il modo in cui il popolo si è formato. Le influenze da altri popoli venivano adattate con le proprie possibilità, tradizioni e gusti. L’insieme dei vestiti tradizionali estoni si può suddividere in quattro gruppi principali: quelli delle zone settentrionali, orientali, meridionali e delle isole. Gli svedesi che alcuni secoli fa si stabilirono sulle isole e nella parte occidentale dell’Estonia lasciarono un’impronta molto significativa nell’abbigliamento popolare: la camicia lunga sotto, la camicia corta con le maniche, l'abito lungo con cucitura verticale sulla schiena (pikk-kuub).
Nei costumi tradizionali troviamo altresì numerose somiglianze anche con gli altri popoli baltici, ovvero con i lettoni e i lituani: camicia tipo tunica, plaid rettangolare (sõba) e gonna rettangolare (vaipseelik). Le gonne e i cardigan più recenti a righe verticali erano già in uso in tutti e tre i popoli. Le influenze dei popoli slavi si manifestavano nell’Estonia orientale: l’usanza di portare la camicia sopra i pantaloni stretti da una cintura, le maniche lunghe della camicia, gli ornamenti intessuti nella stoffa. Alcune, poche, influenze finlandesi si trovano invece nell’Estonia settentrionale come le pantofole finlandesi. Generalmente i vestiti venivano suddivisi in tre gruppi: gli indumenti per feste, quelli di ogni giorno e gli abiti da lavoro. Il vestito tradizionale completo veniva regalato ai ragazzi per la cresima, la festa con cui si celebrava l’ingresso nell’età adulta. I completi rappresentati nel disegno rimasero in uso tra il Settecento e gli inizi del Novecento. I disegni “I vestiti tradizionali estoni” sono di Melanie Kaarma (1981). I campioni del tessuto di gonna in filo di lana e ordito di lino sono di Marika Samlik (2017)
La mostra, curata da Nicoletta Barberini Mengoli e Mark Gregory D’Apuzzo in collaborazione con Fernando e Gioia Lanzi (Centro Studi per la Cultura Popolare), intende infatti far riemergere la memoria di una produzione, quella di statuette presepiali, cui la celebre famiglia di ceramisti si dedicò, recuperando una consolidata tradizione artigianale e artistica locale.
Oltre al gruppo di tredici statuette del nostro presepio, pochi altri ne restano oggi a testimoniare un’attività documentata per altro dalle fotografie a corredo dei listini di vendita della Manifattura Minghetti, in cui si riscoprono proprio i prototipi dei nostri esemplari: ad esempio il presepio della Banca Popolare dell’Emilia Romagna di Bologna o quello della chiesa di San Pietro in Casale, che conta qualche statuetta in più.
Il presepio in mostra si compone di statuette di piccola e media grandezza, realizzate in terracotta a stampo, dipinta a freddo e poi rifinita a mano. Le figure variano per dimensioni dai 20 ai 40 cm e riprendono nelle tipologie e nelle caratteristiche la tradizione affermatasi a Bologna grazie all’opera di insigni scultori, come Angelo Gabriello Piò, Filippo Scandellari, Giacomo De Maria, Gaetano Catenacci.
Nel presepio esposto, oltre alla Natività con la Madonna e il Bambino, modellati in un unico blocco, sono presenti i tre Re Magi e altri personaggi che per consuetudine narrativa partecipano alla gioia della nascita di Gesù, accorrendo a rendergli omaggio. Tra queste l’Ovarola, la contadinella che porta al Bambino le uova come dono e per nutrimento, il Dormiglione, che appesantito dal vino bevuto, come solitamente rivela la fiasca che gli sta vicino, ad eccezione del nostro esemplare, sonnecchia indifferente nonostante la confusione generata dall’evento, e la Meraviglia, la donna del popolo che, stupita dalla nascita del Bambino, a braccia aperte la annuncia al mondo.
Anche le altre figure di contorno – gli animali come l’asino, il bue, il dromedario, ed ancora il pastore o il contadino, che si toglie il cappello in atto di reverenza - rientrano nella tradizionale messa in scena della Notte di Betlemme e dell’Epifania, come già accade per altri esemplari in terracotta, che fanno parte della raccolta permanente del Museo Davia Bargellini, posti in questa occasione in dialogo con le statuette Minghetti. Il confronto renderà evidente quanto le più antiche figure in terracotta possano considerarsi veri e propri modelli per i maestri della Manifattura, trovando oltre tutto nel rapporto di amicizia e stretta collaborazione instauratosi fra Gennaro Minghetti e Francesco Malaguzzi Valeri, il fondatore del museo, un’ulteriore ragione di conferma.
I Musei Civici d’Arte Antica, in collaborazione con l'Arcidiocesi di Bologna, organizzano presso il Museo Civico Medievale una mostra dedicata alla croce di Santa Maria Maggiore, ritrovata nell'ottobre 2013, durante i lavori di pavimentazione del portico della chiesa. L'esposizione, curata da Massimo Medica, nasce dall'occasione di esporre per la prima volta al pubblico la croce viaria dopo il restauro eseguito da Giovanni Giannelli (Laboratorio di restauro Ottorino Nonfarmale S.r.l.).
L'opera rientra nella tipologia di croci poste su colonne che venivano collocate nei punti focali della città a segnalare spazi sacri come chiese e cimiteri, o di particolare aggregazione come i trivi o i crocicchi e le piazze. Stando alla tradizione tale uso si diffuse già in epoca tardo antica a partire dalle "leggendarie" quattro croci poste a protezione della città retratta romana da sant'Ambrogio o san Petronio e oggi conservate nella basilica petroniana. È però soprattutto a partire della nascita del Comune (1116) e con l'espansione urbanistica della città del XII e XIII secolo che si venne a sviluppare tale fenomeno. Talvolta le croci venivano protette da piccole cappelle e corredate di reliquie, di altari per la preghiera, e di tutto il necessario per la celebrazione della messa. Segno distintivo e identificativo per la città le croci segnarono lo spazio urbano fino al 1796, quando l’arrivo delle truppe napoleoniche e l’instaurazione della nuova Repubbilica, trasformarono la città e suoi simboli.
La croce ritrovata di Santa Maria Maggiore è di notevole interesse sia perché rientra tra i molti esemplari andati dispersi, sia perchè è possibile datarla grazie all’iscrizione 1143, presente nel braccio destro. L’opera si viene così a collocare tra i più antichi modelli a noi pervenuti, come quella di poco successiva degli Apostoli ed Evangelisti, detta anche di piazza di Porta Ravegnana, la quale risale al 1159. Scolpita su entrambe le facce, la croce ritrovata presenta sul recto la figura del Cristo dal modellato assai contenuto, caratterizzato da incisivi grafismi che rilevano le fisionomie del volto e il gioco delle pieghe del panneggio. Sul verso invece la scultura è impreziosita da sinuosi ed eleganti tralci d’acanto, intervallati da fiori e da elementi vitinei posti a cornice della mano di Dio benedicente, ormai non più leggibile. Tali motivi decorativi richiamano modelli antichi o tardoantichi, reinterpretati con una verve esecutiva che trova un suo riscontro in certi repertori decorativi della coeva miniatura come dimostrano i codici miniati dell'XI e XII secolo, esposti in mostra accanto a tavolette d'avorio e preziose opere di oreficeria esempi della cultura artistica diffusa nella città felsinea.
I Musei Civici d’Arte Antica in collaborazione con il Dipartimento delle Arti - Università di Bologna promuovono una mostra dedicata a Luigi Crespi (1708-1779), figlio del grande pittore Giuseppe Maria (1665-1747).
La mostra, a cura di Mark Gregory D'Apuzzo e Irene Graziani, è la prima dedicata al pittore, molte opere del quale sono esposte presso il Museo Davia Bargellini e le Collezioni Comunali d'Arte. Figura poliedrica fra le più interessanti del panorama artistico e letterario di Bologna durante l’episcopato del cardinale Prospero Lambertini (1731-1754), e dunque nel periodo di apertura della città alle istanze di rinnovamento culturale sostenute dal vescovo e poi papa Benedetto XIV (1740-1758), Luigi Crespi è protagonista della mostra realizzata grazie alla collaborazione di importanti Istituzioni museali cittadine e collezionisti privati.
Luigi, pur essendo soprattutto celebre come letterato e autore del terzo tomo della Felsina Pittrice, edita nel 1769, ha percorso con successo anche la carriera artistica, intrapresa sotto la guida del padre fra la fine degli anni venti e gli inizi degli anni trenta del Settecento. Un’attività che egli stesso, molti anni più tardi, nella biografia del padre (1769), sosterrà di aver svolto «per divertimento», per significare il privilegio accordato al prestigioso ruolo, assunto a partire dagli anni cinquanta, di scrittore e critico d’arte, che gli frutterà infatti l’aggregazione alle Accademie di Firenze (1770), di Parma (1774) e di Venezia (1776).
La sua produzione figurativa tuttavia, in particolar modo quella rappresentata dal più congeniale genere del ritratto, lo rivela sensibile al dialogo con la scienza moderna e con la libera circolazione delle idee dell’Europa cosmopolita. Nonostante l’impegno applicato anche all’ambito dell’arte sacra, cui Luigi si dedica almeno fino agli inizi degli anni sessanta, è soprattutto nella ritrattistica che raggiunge esiti di grande efficacia, molto apprezzati dalla committenza. «Ebbe un particolare dono di ritrarre le fisionomie degli Uomini, e ne fece una serie di Ritratti di Cavaglieri e Damme», scrive infatti Marcello Oretti (1760-1780), celebrandone l’abilità nell’adattare la formula del codice ritrattistico alle esigenze della clientela.
Come dimostrano il Ritratto di giovane dama con il cagnolino, o i tre ritratti dei Principi Argonauti in origine nel collegio gesuitico di San Francesco Saverio, la pittura di Crespi junior, già addestrato dal genitore Giuseppe Maria ad un fare schietto, attento al naturale e al «vero», evolve verso un nitore della visione che risalta i dettagli, in un’analitica investigazione della realtà, memore di certi esempi (Balthasar Denner e Martin van Meytens) osservati durante un viaggio di sette mesi fra Austria e Germania, dove visita le Gallerie delle corti di Dresda e Vienna (1752). Così li commenterà infatti Gian Pietro Zanotti in una nota manoscritta: «Bisogna dire il vero che ora fa ritratti bellissimi, e di ottimo gusto, in un certo stile oltramontano».
Dal confronto con il «grande mondo» – per utilizzare un’espressione di Prospero Lambertini, che fu in stretti rapporti con Giuseppe Maria Crespi e fu in gran parte il responsabile della carriera ecclesiastica del figlio, conferendogli la carica di «segretario generale della visita della città e della diocesi», il canonicato di Santa Maria Maggiore (1748) ed ancora nominandolo suo cappellano segreto – deriva dunque la conferma della validità del codice del ritratto ufficiale, che gli consente di rappresentare i personaggi, qualificandone i gusti sofisticati, le abitudini raffinate, i comportamenti eleganti e disinvolti da assumere nella vita di società, dove si praticano i rituali di quella “civiltà della conversazione” che nella moderna Europa riunisce aristocratici e intellettuali in un dialogo paritario, dettato dalla condivisione di regole e valori comuni. Ma la prossimità con la cultura lambertiniana lo conduce anche a sperimentare, dapprima ancora con il sostegno del padre, poi autonomamente (Ritratto di fanciulla), nuove tipologie di ritratto, in cui lo sguardo incrocia i volti di individui del ceto borghese: talvolta sono gli oggetti a raccontare con la loro perspicuità di definizione la dignità del lavoro (Ritratto di Antonio Cartolari), altre volte sono invece i gesti caratteristici, l’inquadratura priva di infingimenti (Ritratto di fanciulla), la resa confidenziale del modello, quasi al limite della caricatura (Ritratto di Padre Corsini), a fare emergere il valore umano di quella parte della società, cui papa Lambertini riconosceva un ruolo fondamentale nel rinnovamento.
Nelle sale del Museo Civico Medievale sarà ospitata, nell’ambito delle iniziative culturali rivolte alla città, la mostra dello scultore Bruno Raspanti Confronti curata da Graziano Campanini. Le opere verranno collocate nei prestigiosi ambienti del Palazzo Ghisilardi per mettere a colloquio l’espressione più avanzata dell’arte contemporanea con i capolavori che fanno parte della raccolta del museo. Nel 1974 alla Galleria De Foscherari di Bologna Bruno Raspanti espose per la prima volta una serie di tavoli in marmo con ciotole di minestra in ceramica. La mostra suscitò un notevole interesse intorno alla sua figura e alle provocazioni che andava proponendo. Provocazioni che sono continuate nel corso degli anni in molte mostre significative in Italia e all’estero sino all’esposizione di una selezione antologica di sue opere nell’Oratorio del Museo della Sanità e dell’Assistenza presso il celebre complesso monumentale di Santa Maria della Vita nel 2011. E’ stato lì, nel vedere le sue opere inserite quasi a colloquio con un apparato decorativo ed artistico che risale al ‘500, culminante nello straordinario Transito della Vergine di Alfonso Lombardi, che è nata l’idea di riproporre in modo ancora più perentorio un confronto non solo tra antico e moderno ma tra così diverse concezioni dell’arte e della rappresentazione: è dunque il Museo Civico Medievale il teatro di questo confronto che può apparire spiazzante ma al tempo stesso mette in luce un filo assai resistente che collega i diversi momenti della storia dell’arte, divertendosi a unire la contemporaneità con la storia. Nel suo studio-officina Bruno Raspanti, alle prese con materiali di ogni genere (bronzo, terracotta, pezzi di legno, tegole, vetro, sedie, plastica ecc.) dà vita a visioni stupefacenti che si propongono non come copia del mondo ma come uso del mondo. Un uso derisorio e impossibile: nascono così i baccelli, i carrioli, le zolle, ma anche i teatrini, tutti parte di una rappresentazione ironica e teneramente inattuale, in cui lo spazio, le proporzioni e le prospettive si mischiano e si confondono. Oggetti fragili e precari la cui esibita vocazione artistica viene messa in causa e contraddetta dallo stesso autore che pure, dando vita a questo confronto così improbabile, riafferma e sancisce quella continuità nella differenza in cui ogni artista ama collocarsi. La carica spettacolare e scenografica delle opere di Bruno Raspanti avrà modo di risaltare ancora di più nelle sale austere e cariche di storia del museo.
In occasione dell'Ottavo Centenario della conferma della regola dell'Ordine dei Predicatori (1216-2016), la nostra piccola esposizione, curata da Ilaria Negretti e Paolo Cova: San Domenico: il volto del Santo nei codici miniati del Museo Civico Medievale 1216-2016 è dedicata allo studio iconografico delle miniature di Domenico rintracciate nei codici Due-Trecenteschi conservati nella collezione del Museo Civico Medievale.
“...era di statura media, di corporatura delicata, la faccia bella e un poco rossa, i capelli e la barba leggermente rossi, belli gli occhi. Dalla sua fronte, e fra le ciglia, irraggiava un certo splendore, che attirava tutti a venerarlo e ad amarlo. Sempre ilare e giocondo, se non mosso a compassione per qualche afflizione del prossimo. Aveva le mani lunghe e belle. Aveva una grande voce bella e risonante. Non fu affatto calvo, ma aveva la corona della rasura del tutto integra, cosparsa di pochi capelli bianchi.”
In questa mirabile descrizione di Domenico di Guzmán la beata Cecilia Cesarini, partecipe della prima esperienza del nuovo ordine, tratteggia con realismo la sua fisionomia. E' interessante notare come le immagini più antiche (Invv. 512-513-514-521-612), realizzate nella seconda metà del XIII secolo, a qualche decennio di distanza dalla morte del Santo (1221), paiono tramandare la memoria del suo vero volto.
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I Musei Civici d’Arte Antica, in collaborazione con i Musei Capitolini di Roma, espongono per la prima volta un dipinto di Diego Velázquez (1599-1660). Fino al prossimo maggio sarà infatti visibile presso la Sala Urbana delle Collezioni Comunali d’Arte il Ritratto di uomo della Pinacoteca Capitolina, che la critica ha supposto possa essere un autoritratto del celebre artista spagnolo.
Pur giocato su una scala cromatica ridotta, il ritratto è una prova della penetrante e prensile abilità introspettiva del pittore, che compì due soggiorni in Italia (1629-31 e 1649-50): contro uno sfondo sommario, la resa impressionistica del volto lascia focalizzare l’espressione vigile dello sguardo, che instaura con quello dello spettatore un rapporto diretto; il dialogo serrato che ne nasce finisce per costringere chi osserva a presupporre l’esistenza di uno spazio reale, in grado di accomunarlo hic et nunc con il personaggio. Appare così in tutta la sua evidenza la sorprendente presa di realtà di Velázquez, che punta a catturare l’interiorità del modello, traducendo la verità della sua anima in una pittura veloce e compendiaria, in cui sta sospeso l’istante fuggente della vita.
Attorno a questo straordinario esempio della ritrattistica seicentesca si è pensato di organizzare una piccola esposizione, a cura di Massimo Medica e Mark Gregory D’Apuzzo, accostando al dipinto dell’artista spagnolo due opere dei Musei Civici bolognesi, ugualmente significative: il Busto di papa Gregorio XV (1621-1622) di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), esemplare in bronzo derivato dal prototipo in marmo, ad oggi non rintracciato, richiesto dal cardinal nipote Ludovico Ludovisi in occasione della salita dello zio al soglio pontificio, e la Testa di San Filippo Neri (intorno al 1640) di Alessandro Algardi (1595-1654), modellato in cera rossa e ricavato dalla maschera funeraria del Santo, conservata nella chiesa della Vallicella a Roma.
C’è un filo rosso che lega il Museo Civico Medievale di Bologna a Ötzi – conosciuto anche come la Mummia del Similaun, a Nicolaj Lilin – autore del romanzo Educazione Siberiana, a Danilo Rossi Lajolo di Cossano – ricercatore e studioso delle tradizioni italiane del coltello e del bastone, fino ad arrivare al Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso”, Università di Torino.
Sono tutti protagonisti della prima mostra dedicata alla storia del tatuaggio italiano che si terrà a Bologna dal 29 marzo al 30 aprile 2017 nelle sale del Museo Civico Medievale di via Manzoni 4.
La mostra, dal titolo “STIGMĂTA - La tradizione del tatuaggio in Italia” si aprirà il 29 marzo alle ore 18 con una conferenza che ha come titolo L’origine del Marchio. Due relatori d’eccezione, Nicolaj Lilin e Danilo Rossi Lajolo di Cossano, approfondiranno una tematica saliente della mostra, analizzando i tatuaggi ritualistici legati alle onorate società della vita e della malavita italiana dall’800 ai primi del ‘900 fino a quelli della criminalità siberiana/russa, oltre agli aspetti e le caratteristiche che simboleggiano i gradi, i ruoli e la vita nei bassifondi dell’ex Unione Sovietica.
Il pubblico verrà introdotto ai contenuti della mostra, attraverso un percorso di opere provenienti dal museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso” Università di Torino, che ha messo a disposizione immagini e disegni inediti di carcerati e affiliati alla malavita organizzata studiati a cavallo tra l’800 e il 900. E ancora il visitatore potrà entrare in contatto con la cultura del tatuaggio attraverso foto, strumenti e stampe provenienti dalle collezioni private di Danilo Rossi Lajolo di Cossano, Tattoo Museo Fercioni e dall'Art Tattoo Studio di Marco Pisa.
Tre sono i temi della tradizione del tatuaggio in Italia:
1. Il tatuaggio degli artigiani
2. Il tatuaggio religioso dei cristiani e dei pellegrini
3. Il tatuaggio dei criminali
La mostra che ripercorre tutta la storia del tatuaggio tratterà questi temi partendo dalle origini, scavando fino ad un passato che ha radici molto lontane. Lo racconta attraverso il corpo di Ötzi e i suoi 61 tatuaggi, saranno infatti i simboli della Mummia del Similaun ad aprire il percorso con un’esposizione fotografica a lui dedicata. I materiali sono messi a disposizione dal Museo Antropologico dell'Alto Adige di Bolzano.
COMUNE DI BOLOGNA
Settore Musei Civici di Bologna
via Don Minzoni 14
40121 Bologna